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Pane/Piazza delle Camelie (2008) di Tonino De Bernardi

Regia: Tonino De Bernardi
Sceneggiatura: Tonino De Bernardi
Cast: Chiara Pauluzzi, Fulvio Baglivi, Chiara Cocolini, Carlo Cocolini, Veronique Bouteille, Cristina Brugnano
Produzione: Lontane Province Film
Paese: Italia (2008) Tipologia: Lungometraggio-Documentario
Uscita Italia: fine 2008


Trama: Sulle montagne della Toscana troviamo una coppia che fa pane e pasta tutte le notti per poi venderla, ormai come tradizione. A Roma invece troviamo stralci di vita di alcuni giovani di periferia. Universi lontani ed estremamente diversi vengono raccontati poeticamente e con distacco dall’Italia di oggi.

Ci arriva, qualche tempo fa, una mail da un lettore (firmato Andrea Monti) che ci regala la recensione per questo film di Tonino De Bernardi Pane/Piazza delle Camelie, molto appassionata, che vi propongo.

Recensione Pane/Piazza delle Camelie (2008) di Tonino De Bernardi
Titolo Originale: Pane/Piazza delle Camelie


L’ultimo film di Tonino De Bernardi, che spunta con la semplicità di una camelia nella Zona più al riparo dal concrete industriale cinematografico del Festival di Torino, ci riconsegna in concreto la realtà esattamente così come ce la siamo scordata: bella.

Sguardi ormai possibili solo se prodotti da spiacevoli ‘inconvenienti’. Come quando, inspiegabilmente tradito da auto e cellulare, costretto a suonare all’abitazione più vicina, non ti spieghi come sia possibile ritrovarsi seduto intorno allo stesso tavolo con persone sconosciute – incrociate in quella casa a caso, diverse ma che come te dovranno pure mangiare a una certa ora! – e avere la sensazione di cenare davvero per la prima volta, di essere in famiglia, o magari solo in una più grande…CondiviVendo. Tonino questo lo ricerca, come una necessità, contro ogni scherzo del destino, anzi appunto scherzando coi destini.

Questo è il suo Pane. E il film a sua volta si fa sliding door, si fa / come nel titolo del film Pane/Piazza delle Camelie, montando in parallelo storie/vite che avrebbero potuto essere e intrecciarsi, e di fatto è nello spazio creato dal film che trovano una realtà e un legame altrimenti impossibili (forse). Il film come occasione.

L’incontrarsi, questa cosa che avviene quasi per errore, qui diventa progetto, film.

E forse è proprio questo l’errore di Tonino, o meglio, l’errare.  Così come errano senza posa le vite – oltre le persone, i personaggi – che popolano silenziosamente i suoi film, che girano in tondo nella notte consumati dal fuoco, nell’eterno ritorno di incroci unici, irripetibili, come attendendo l’inizio del film che già sono. L’errore di un cinema che molto più di altri vuole e ha bisogno di uno spettatore e, come forse è naturale, più di altri rischia di restare incompreso. Troppo privato forse, troppo prezioso? Come una rara stampa antica che in una piazza nessuno si prenda la pena di raccogliere per il non saper più in alcun modo riconoscerla.

Ladri – o produttori leader – ormai solo di cianfrusaglie.

Per questo un avventore fortuito della sala che proietta l’ultimo film di De Bernardi potrebbe dire “Ma insomma dove sono le pistole? Dove è il sesso?” e qualcuno certo potrebbe rispondergli “L’Ambrosio è quello vicino alla stazione!”(*)…ma del resto entrando in sala non sapeva di essere entrato nella vita di Tonino, e quindi nel film stesso.
Non pistole, ma camelie. Non sesso, ma pane.
Ed ecco là sullo schermo questa cosa quasi triviale, hard (to see), sensuale, romantica, inedita. Ecco come si fa il pane! (Vorrei notare: conosciamo meglio il modo in cui si tortura un uomo che il modo in cui si fa il nostro alimento più comune. Hollywood school!). La scuola dell’immagine non può che essere quella del prodotto finito.

Ma quest’occhio affamato che segue uno ad uno i pani entrare e uscire caldi dal forno, un occhio aperto su questo rito privato – come un privé gastronomico – che si celebra ogni giorno da una vita intera e nella cripta del suo proprio linguaggio, ecco che disgela tutto il lavoro che vi sta dietro, e tutte le vite. Come un giro di vite appunto di cui a tratti si coglie l’unheimlich, proprio in quel luogo tanto domestico, forse per quella automazione naturale dei gesti, questo rimandare incuranti il senso ogni volta alla prossima serie da infornare.
 

[(*)= mi piace pensare il pubblico del Festival di Torino in qualche modo spaccato in due parti rivali: i Greenwichiani e gli Ambrosiani, cioè i frequentatori della sala Greenwich – che mostra cose più ‘di nicchia’ – opposta all’Ambrosio – invece di orientamento più ‘popolare’…Lo ammetto, non senza il sentimento di orgoglio proprio delle minoranze.]
 
È questo mistero su cui indugia a lungo la camera di De Bernardi, la sua fame di vedente, il bisogno di dare un’istantanea – sempre troppo breve – del film rivissuto, rigirato, riveduto, ed esposto in loop solo a se stesso dalla coppia di panai, nel tentativo forse di filmare proprio questa mole spaventosa di tempo già assente.

Ma c’è anche un altro film, al di là della /, quello di Piazza delle Camelie, nella periferia romana. Qua, una volta fuori dalla cartolina di Roma, seguiamo le traiettorie solitarie di giovani presenze che si attraversano, si stringono, si sorreggono, si tradiscono, si riuniscono, si ribellano, si accarezzano. Sognano?

Saremmo tentati di capire, di sciogliere questo intreccio malinconico. Ma cosa c’è mai da capire? Chi è che è padrone in ogni momento di quel che sta facendo? Eppure vogliamo sentirsi dire: le cose sono andate così e così. E raccogliere le prove per poter tenere in pugno il fascicolo di questo ennesimo delitto. Ma qual è il processo che con un verdetto può cancellare il proprio delitto? Quello che ci fa sapere Tonino è esattamente quello che nella realtà di fatto ci è dato di sapere. Dovremmo abituarci.

In questi blocchi di film, il cemento extra-urbano viene percorso dalle venature di queste giovani camelie, che resistono al freddo, amano la penombra, il terreno acido e non fanno – nel linguaggio dei fiori – che celare la propria superiorità e la propria bellezza. E la musica perfetta di una incantevole Véronique Bouteille, chitarra classica e voce live – viva! – che appare scompare come dei brevi scorci su una rovina tardo-romantica. Des beaux moments.

Di cui il più bello ritrae i ‘vecchi amici dell’underground’ Pia Epremian e Adamo Vergine che al tavolo di cucina condividono una poesia, come quarant’anni prima condividevano quella di un cinema tutto da inventare, con Tonino dietro la camera che non ha mai smesso e lo inventa lì ancora una volta. Pia è assorbita dalla lettura dell’ultima elegia duinese di R. M. Rilke, e da una frase in particolare, che ripete più volte, ma è troppo bella e chiede ogni volta il sostegno di Adamo: “Noi, che sprechiamo i dolori…Ah, ma come è vero! Non è così Adamo? Senti quanto è bella:…Noi, che sprechiamo i dolori.” E Adamo assorto: “Oh…sì Pia, è davvero bella.”
E noi che vediamo questa coppia rapita dalla bellezza di un verso, che condivide in quel momento parole tanto definitive, che sembra portino la saggezza conclusiva di ogni percorso, dopo aver fatto a metà di chissà quanti dolori chissà quanti amori, avvertiamo il sublime di Rilke che è il sublime della vita. Io ho pianto.

Questo film di Tonino De Bernardi, e non è certo il primo, è essenzialmente osmotico, la membrana dell’immagine è in totale assorbimento del mondo, di ciò che ne resta al di fuori, del prima e del dopo, verso un tutto tutto nello stesso istante, nell’istante del film – tutto può essere, tutto è film: familiari, amici, sconosciuti…così che anche la montatrice Silvia Palermo ci cade dentro, magari si addormenta mentre monta una scena e ci si risveglia dentro al mattino, nel gioco fuori/dentro di un film che non cessa di riprendersi, che trasforma la videocamera nel tunnel che porta Alice nella sua Wonderland, un tunnel che può aprirsi in un prato così come in una credenza.

Questo ‘cinema’ sembra nel senso più generale un guardare, limitato solo nel darsi la forma di film, un occhio-in-movimento che anima una realtà immobile, fissata nel suo moto perpetuo, uno sguardo che sa di costruirsi ciò che vede ma che ama la sua visione e vorrebbe che fosse la visione di altri – del resto, siamo qualcosa in più del nostro guardare? – come in una soggettiva assoluta. Una ennesima regia della natura, in forma di Tonino.

Questo occhio che vaga, si sofferma, si chiude, insegue, svela, ma che costantemente ammira, e soffre i suoi 180°, è sempre più forte del film. Lo sguardo è sempre nel quadro, a legare ogni singola cosa che vediamo, o meglio che ci rende possibile vedere. Costantemente al di là della camera, a trasmettere la voglia di esserci, e la voglia anche di filmarsi, che si dispiega nel modo migliore solo filmando l’altro. E guardare non è mai semplicemente un aprire/chiudersi di occhi, ma anche un pensare, sentire, in un certo senso esistere. Si direbbe che non è affatto un cinema, ma semplicemente una persona che vive. Non riesco a pensare a nessun’altro che più di Tonino possa rivestire le parole che usa lo stesso Jonas Mekas, suo amico di vecchia data, per descriversi: “I’m not a film-maker, I’m a filmer”. Ed ecco che cade la distinzione tra fiction e documentario. Non ci sono più né attori né persone vere, ma solo spettri che vivono oltre le maschere che di volta in volta indossano, siano scene scritte da buoni autori, siano scritte da buoni dèi. Come il film è al di là e al di qua della camera, così sono vite al di qua e al di là della maschera. Illimitandosi. Così come De Bernardi non può certo limitare il suo discorso a  questo film, e già annuncia che il prossimo episodio della ‘saga’ delle camelie sarà un ‘senza camelie’. Ma intanto pensiamo a questo: Tonino, sei stato un bel film.

Recensione scritta da Andrea Monti

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