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Recensione: The Wrestler (2008) di Darren Aronofsky

RECENSIONE: The Wrestler (2008) di Darren Aronofsky.
Dopo la delusione (soprattutto personale, visto quanto si è dedicato al progetto) di The Fountain, film ambizioso, non del tutto riuscito ma dotato di un indiscutibile fascino, Darren Aronofsky torna alle atmosfere che più gli si addicono.

Quelle del cinema indipendente (la pellicola è costata sei milioni di dollari, una cifra praticamente irrisoria), che hanno saputo portarlo alla ribalta e che hanno rappresentato le tappe fondamentali di una carriera (ancora) breve ma degna di nota.

The Wrestler giunge nelle nostre sale accompagnato dalle migliori presentazioni.
Leone d’Oro al Festival di Venezia; due Golden Globe (miglior attore e migliore canzone); 3 Independent Spirit Awards (miglior film, attore protagonista e fotografia) e due nomination, purtroppo mancate, agli Oscar (miglior attore e migliore attrice non protagonista).
Solo questo basterebbe a far capire il valore di un film che, oltre a dei meriti sicuramente indiscutibili, ha il pregio di riuscire a rappresentare un duplice riscatto personale.

Quello di Aronofsky, dopo l’insuccesso del precedente progetto, ma soprattutto quello di un attore che da troppo tempo attendeva un grande ritorno.
Difficile pensare il contrario, infatti, quando il protagonista in questione è Mickey Rourke che, proprio come il buon Randy, di batoste ne ha prese dalla vita (“non sono più bello come prima, non ho più tutti i denti e dimentico sempre qualcosa, ma ci sono cazzo!“).

Nonostante la ritrosia iniziale nei confronti di un ruolo che, sportivamente parlando, rappresenta l’esatto opposto del valore agonistico della boxe – praticata dall’attore fuori dalle scene – è davvero difficile immaginare questo wrestler con un volto diverso (soprattutto se si pensa al fatto che quella per l’indimenticato Motorcycle Boy è stata una scelta di ripiego, dopo il rifiuto di Nicolas Cage).
Altrettanto difficile pensare che Rourke non ci abbia messo anima e corpo in questo progetto. Persino la sua schiena, insistentemente inquadrata da Aronofsky nei numerosi pedinamenti in piano sequenza che incorniciano la storia, sembra parlarci e ogni solco su quel viso, così diverso da quello del bello e impossibile di Nove Settimane e Mezzo, trasuda sofferenza e rassegnazione.

Una rassegnazione che, unita ad una regia così lontana dalla frenesia di Requiem For a Dream, dà forma ad un’opera cupa, ma nonostante tutto speranzosa.
Un Sunset Boulevard aggiornato e profondamente macho, che sembra volerci ricordare che, a questo mondo, siamo tutti lottatori. Specialmente oggi.

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    La Solitudine di un uomo. Mickey Rourke divo incontrastato del cinema americano degli anni ‘80 porta sul grande schermo un personaggio distrutto fisicamente e psicologicamente dalla vita, probabilmente traendo spunto anche dalla sua vita personale. Un drammatico combattente che dopo i suoi anni di fama e di successo affronta a vent’ anni di distanza i suoi fallimenti quotidiani. Aronofsky, attraverso il metodo registico che lo ha contraddistinto in capolavori come Requiem for a Dream, segue il suo protagonista quasi come fosse un angelo custode non lasciandolo mai da solo neanche nei momenti delle sue angosce più intime. Mickey Rourke è Randy The Ram un famoso eroe wrestler degli anni ‘80 che dopo aver abbandonato la categoria professionistica per guadagnarsi da vivere continua a fare l’unica cosa che è in grado di fare (combattere) da amatore in incontri più violenti ma meno remunerativi. ma colpito da un infarto improvviso dopo uno di questi incontri particolarmente violento è inizialmente costretto ad abbandonare anche quel circuito e a far un bilancio con quella vita che improvvisamente sembra potergli da un momento all’altro scivolare via dalle mani. Lungo il suo cammino riflessivo colmo di solitudine e insoddisfazioni incontrerà una spogliarellista interpretata da Marisa Tomei che gli consiglierà di recuperare il rapporto con la figlia (Evan Rachel Wood). E attraverso i suoi tentativi di recuperare il rapporto di padre con la figlia inizierà a sentirsi meno solo e a cercare di diventare un uomo diverso da quello che è stato fino a quel momento. Tenterà la via della propria rivoluzione, del cambiamento. Ma tutto questo gli risulterà difficile perchè i comportamenti e le abitudini di vita poco moderate, che lo hanno portato a fallire tutte le sue relazioni affettive della sua vita, presto riaffioreranno. Aronofsky riporta alla luce la tanto discussa tematica degli anni ‘80, che hanno segnato nelle menti di molti statunitensi (e non solo!) il fatidico “sogno americano” di rinascita, fama e successo economico. Ciò che Randy aveva raggiunto ma che non è stato in grado di mantenere perchè come è ben noto il tempo porta via con sè certe cose. Ma nonostante tutto, sofferente, non si lascia domare e quasi come il gladiatore continua a sognare e lottare per ciò in cui crede anche a costo di andarsene lasciando alle sue spalle sempre qualcosa in meno. E farà la sua scelta finale, del quale Aronofsky saggiamente lascia a noi spettatori capirne il vero senso. Il senso di un eroe decadente, che sa ancora piangere, che sa ancora regala emozioni al suo pubblico. A suo modo. Anche se questo suo personale modo lo porterà alla solitudine e alla distruzione. Crudo. Realista. Sincero.

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