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“L’uomo che ama” di Maria Sole Tognazzi

Il film che ha avuto l’onere e l’onore di aprire il Festival cinematografico di Roma (il primo dei 27 film italiani presenti all’evento).

Gran parte della critica non è stata tenera. Il Messaggero parla di “collage poco armonioso” e Panorama di “film inutile”; per Liberazione è la prova che “il cinema italiano non sta tanto bene”, Il Corriere della Sera lo giudica “lento, caratterizzato da una recitazione soporifera da parte di tutti gli interpreti”, per Avvenire è un film dalla “trama risicata” e dal “contenuto ovvio”.
Ma non manca qualche parere positivo (La Stampa, ad esempio, afferma che è “un film sorpresa che parla di sentimenti veri”).



In effetti “L’uomo che ama” è un’opera minimalista e intimista, elegante e ben girata, molto curata in ogni dettaglio, che vuole illustrare i vari gradi ed effetti del dolore, avendo l’occhio rivolto più al cinema francese che a quello nostrano (molti silenzi, molti sguardi, molte passeggiate…).
Il punto di partenza è il romanzo
“Cronache di un disamore” di Ivan Cotroneo (qui alla sua seconda esperienza come co-sceneggiatore, dopo “Piano Solo” di Riccardo Milani) e il tema centrale è l’uomo che soffre per amore (argomento non molto trattato dal cinema che preferisce mostrare la donna che piange e si addolora). Più volte la regista (Nastro d’Argento nel 2003 col suo “Passato prossimo”) ha dichiarato il suo interesse per l’analisi della fragilità dell’animo maschile e ha avvertito che il suo lavoro non racconta un triangolo amoroso ma “due storie d’amore vissute in modi e tempi diversi”. Tutta l’attenzione è rivolta quindi al protagonista, sempre in primo piano, archetipo dell’universo maschile di cui si esplorano sentimenti, debolezze, pensieri… vittima e carnefice al contempo (ma al primo aspetto si dà più rilevanza).
Ingiusto qualificarlo cinema
“vecchio e ripetitivo” (come ha scritto L’Unità): è palese la volontà della regista di fare qualcosa di diverso e di nuovo rispetto al panorama del cinema italiano. Non mancano certamente difetti (inutili storie parallele, presenza di personaggi superflui, qualche riempitivo di troppo, alternarsi non equilibrato di momenti enfatizzati e scene encomiabilmente asciutte e sommesse, ritmo narrativo non esaltante, squilibrio tra il mostrare la sofferenze di essere lasciato e la sofferenza di lasciare…), difetti che contribuiscono a non fare di questo film quello che sulla carta prometteva e a suscitare nello spettatore qualche attimo di noia o di irritazione: si aggiunga che non tutti i comportamenti sono sufficientemente motivati e che qualche notazione psicologica in più non avrebbe guastato..
Complessivamente è comunque un film non disprezzabile, spesso coinvolgente, interessante nella tematica e nella realizzazione.
Apprezzabili la musica delicata (ma invasiva), e la ben fotografata Torino austera e malinconica.
Bravi e impegnati tutti gli attori: menzione particolare al giovane Michele Alhaique (il fratello del protagonista) e a Marisa Paredes (in un piccolo ruolo riesce a dimostrare quale grande attrice sia).

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